Incontro con i Diaconi Permanenti
della Conferenza Episcopale Campana
30 ottobre 2021

IL DIACONO PERMANENTE, MINISTRO DELLA PAROLA,
IMPEGNATO AD ANNUNCIARE E A TESTIMONIARE IL
VANGELO NELLA NOSTRA SOCIETÀ

 

Cari amici,

grazie per questo invito! Un sentimento di particolare gratitudine intendo rivolgere a Mons. Acampa per la sua attenzione di questi mesi e per aver fatto in modo di trovarci oggi in presenza: le lettere, le telefonate, l’accortezza di capire bene la situazione pandemica e poi decidere di spostare e trovare un’altra data per l’incontro, mi hanno fatto capire quanta cura e, allo stesso tempo, quanto fosse grande il desiderio per la condivisione odierna.

Sono i gesti di cura che ci salvano e a voi diaconi permanenti è chiesto questo compito così importante: compiere gesti di cura, soprattutto verso i più deboli. E che la vita di questi fratelli e sorelle in difficoltà possa diventare sempre di più una vostra seconda mensa eucaristica.

In questo periodo così drammatico per la vita del mondo dobbiamo fare la scelta di pensare percorsi insieme, di mettere insieme cuore e mani, intelligenza e gambe, che poi è quello che il Cammino sinodale ci sta chiedendo e ci chiederà per il futuro, per poter essere annunciatori e testimoni del Vangelo nella nostra società.

Premessa

Mi sembra importante contestualizzare il mio intervento di questa mattina nel tempo particolare che stiamo vivendo per offrire un contributo che comprenda il vostro essere diaconi nell’oggi della Chiesa e del mondo. È evidente che questo tempo ci sta toccando da vicino e nel profondo e provoca in noi molte domande che ci interrogano, anche rispetto al servizio particolare cui siamo chiamati: che cosa significa essere diaconi che rispondono alle sfide che questo tempo provoca? Come leggere insieme i segni forti che questa epoca porta con sé?

Ricordiamo l’espressione di papa Francesco: «Si può dire che oggi non viviamo in un’epoca di cambiamento ma in un cambiamento d’epoca». Così vorrei evidenziare alcuni passaggi che attestano un processo di cambiamento che sta avvenendo anche per quanto riguarda il cammino della Chiesa che è in Italia normalmente scandito dagli Orientamenti Pastorali del decennio. Nel maggio 2020 l’Assemblea Generale ne avrebbe dovuto approvare il testo, da offrire alle comunità diocesane nei successivi cinque anni. Andando a dimezzare il periodo della durata degli Orientamenti i Vescovi avevano già assunto una decisione significativa riconoscendo la maggior rapidità dei cambiamenti storici e sociali ai quali necessariamente adattarsi. Di fatto, l’Assemblea del maggio 2020 non è mai stata convocata a causa della pandemia che ha cambiato il mondo e ancora lo sta cambiando e per due anni i Vescovi non si sono radunati in Assemblea.

Il 30 gennaio 2021 papa Francesco, incontrando in udienza nella sala Clementina una nutrita delegazione di catechisti nel 60° anniversario dell’Ufficio Catechistico Nazionale ha di fatto “battezzato” il Cammino Sinodale per le Chiese che sono in Italia. Essere diaconi ministri della Parola impegnati ad annunciare e a testimoniare il vangelo nella nostra società – come recita il titolo della relazione che mi è stata richiesta – significa essere pienamente coinvolti, impegnati e protagonisti nel portare avanti il Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia. È questo lo sfondo nel quale si inserisce la mia relazione e che costituisce l’ossatura del mio intervento che avrà come riferimento principale il Convegno Ecclesiale di Firenze del 2015 – in particolare il discorso che papa Francesco ha tenuto in quell’occasione. Quel testo del Papa è una Magna Charta per la Chiesa che è in Italia, così come l’esortazione Evangelii gaudium e tutto il magistero successivo.

Sono fari importanti da non spegnere mai, perché chiavi interpretative del nostro agire pastorale e del nostro essere Chiesa: laici, consacrati/e, vescovi, presbiteri e diaconi. Vi invito – se mi permettete – ad andare a rivedere il filmato del discorso: il testo scritto è già molto “potente” ma riascoltare la voce di papa Francesco ci restituisce in qualche modo la grazia di quel momento.

Alle origini del diaconato

Ho l’impressione e la certezza che le molte sollecitazioni rivolte dal Santo Padre alla Chiesa tutta siano un forte richiamo a rinnovarci alla luce degli Atti degli Apostoli e della Chiesa delle origini. È a quella comunità primigenia che vogliamo guardare e trarre per noi una pagina del libro di Luca che narra la vocazione di Stefano e – in qualche modo – delle origini della vocazione di ognuno di voi.

«In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: “Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola”. Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani. E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede. Stefano, intanto, pieno di grazia e di potenza, faceva grandi prodigi e segni tra il popolo».

Nel brano che abbiamo ascoltato tutto nasce a partire da un accorgimento e da una convocazione: l’accorgimento che, ad un certo punto, qualcuno nota che vengono trascurate alcune persone – le vedove – nella cura quotidiana e chiede ai discepoli di interessarsene. E la convocazione: da un pensiero condiviso emergono i nomi di Stefano e di altri, perché possano prendersi cura di tutti. Mi sembra interessante anche per voi: siete stati scelti da una convocazione e dal comune desiderio – dal desiderio della Chiesa – di prendersi cura di tutti. Il diaconato ha anche questo nelle radici: l’anelito della comunità ad arrivare fino alle periferie delle città nell’accortezza di non escludere nessuno dalle attenzioni della Chiesa, a non lasciare fuori nessuno dal suo cuore. Il vostro servizio all’altare è segno della vostra vita scelta e donata per prendervi cura dei bisogni di tutti.

Chiamati insieme

Il numero dei discepoli si moltiplicava grandemente: siete stati chiamati ma non da soli. Negli ultimi decenni ci siamo ormai convinti della universale chiamata alla santità (Concilio Vaticano II, Lumen gentium, 41) e che le singole vocazioni sono una via per raggiungerla, ciascuna con la medesima dignità delle altre. Tuttavia, abbiamo rischiato di lasciare nell’ombra il suo multiforme esercizio. Nel medesimo capitolo della costituzione conciliare, infatti, si osserva come nel grande corpo di Cristo che è la Chiesa ogni membro ha la sua missione e il suo compito, il suo posto che la rende differente, unica, come unica è ogni persona, ogni tessera in un mosaico. In altre parole, esiste una vocazione dell’intero corpo ecclesiale che è la missione di annunciare il Vangelo e portare a tutte le genti il Regno di Dio ed esiste anche la vocazione di ciascuno dei suoi membri, che rende carne, fa prendere corpo alla chiamata universale della Chiesa stessa. Lo Spirito, infatti, risveglia ciascuno dei credenti per essere pietra viva e scelta per la costruzione del tempio vivo di Dio e per compiere, attraverso i suoi gesti, la sua storia, l’opera della carità che si concretizza nella sua missione. In questa prospettiva ci vogliamo disporre per entrare nel Cammino sinodale – syn odos (fare strada insieme). Questa è la missione della Chiesa, la profezia per il III millennio: «Che la Chiesa diventi la casa e la scuola della comunione» (GPII, NMI 43). E Papa Francesco nel discorso di Firenze ci ha indicato una via possibile per rendere concreta la possibilità di lasciar emergere questa comunione ecclesiale quale espressione di quel nuovo umanesimo che emerge con forza in alcune immagini che ci riguardano da vicino.

Discepoli del Signore

Proprio all’inizio del suo discorso, il Santo Padre, sotto la cupola della Cattedrale di Firenze così commentava l’affresco raffigurante il giudizio universale:

 Al centro c’è Gesù, nostra luce. L’iscrizione che si legge all’apice dell’affresco è “Ecce Homo”. Guardando questa cupola siamo attratti verso l’alto, mentre contempliamo la trasformazione del Cristo giudicato da Pilato nel Cristo assiso sul trono del giudice. Un angelo gli porta la spada, ma Gesù non assume i simboli del giudizio, anzi solleva la mano destra mostrando i segni della passione, perché Lui «ha dato sé stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2,6). «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17). Nella luce di questo Giudice di misericordia, le nostre ginocchia si piegano in adorazione, e le nostre mani e i nostri piedi si rinvigoriscono. Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15). Guardando il suo volto che cosa vediamo? Innanzitutto il volto di un Dio «svuotato», di un Dio che ha assunto la condizione di servo, umiliato e obbediente fino alla morte (cfr Fil 2,7). Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel volto ci guarda. Dio – che è «l’essere di cui non si può pensare il maggiore», come diceva sant’Anselmo, o il Deus semper maior di sant’Ignazio di Loyola – diventa sempre più grande di sé stesso abbassandosi. Se non ci abbassiamo non potremo vedere il suo volto. Non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato. E quindi non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto.

Non posso non mettere in parallelo tutto ciò con quanto riportano gli Atti degli apostoli a proposito dell’epilogo del percorso terreno del primo diacono:

All’udire queste cose, erano furibondi in cuor loro e digrignavano i denti contro Stefano. Ma egli, pieno di Spirito Santo, fissando il cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla destra di Dio e disse: “Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”. Allora, gridando a gran voce, si turarono gli orecchi e si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo. E i testimoni deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane, chiamato Saulo. E lapidavano Stefano, che pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”. Poi piegò le ginocchia e gridò a gran voce: “Signore, non imputare loro questo peccato”. Detto questo, morì. (At 7,54-55).

Questo mi sembra l’umanesimo nuovo e antico di cui siamo chiamati a essere espressione. È questa la figura nuova del diacono che oggi siamo chiamati a incarnare, innestata nel mistero di morte e risurrezione di Gesù Cristo. Ed è una figura di diacono che non può non essere espressione di una Chiesa che vive quale testimone dello Spirito del Concilio Vaticano II. Anche qui mi permetto di richiamare uno dei significativi incisi che caratterizzano i discorsi di Papa Francesco, quando, proprio durante l’udienza del 30 gennaio 2021 con i catechisti ha detto con forza: «Questo è magistero: il Concilio è magistero della Chiesa. O tu stai con la Chiesa e pertanto segui il Concilio, e se tu non segui il Concilio o tu l’interpreti a modo tuo, come vuoi tu, tu non stai con la Chiesa».

Sono veramente tanti i modi che abbiamo per poter “stare” invece con la Chiesa. Certamente possiamo inventarne di nuovi ma qui non si tratta tanto di fare cose nuove perché la vera differenza la fa lo spirito con cui facciamo le cose che possono essere anche le stesse di ogni giorno. A questo proposito ci sono degli ambiti significativi, generati nel post-concilio che ritengo luoghi speciali di grazia, dove la presenza di diaconi che vivono la propria appartenenza alla Chiesa secondo questo spirito, diventa un contributo di servizio fondamentale. Mi riferisco alla vostra presenza negli organismi di partecipazione delle diocesi e delle parrocchie. Accanto ad esperienze felici, troppo spesso questi organismi appaiono o vengono considerati vuoti di senso. Credo che questo sia il tempo per ravvivarli, se ciò fosse necessario. Per renderli corrispondenti al loro disegno originario.

Annunciatori del Vangelo

Ora facciamo un ulteriore passo nell’approfondimento del tema che mi avete affidato: «Il diacono permanente, ministro anche della Parola impegnato ad annunciare e a testimoniare il Vangelo nella nostra società». Nel rito del diaconato avete ascoltato la parola della Chiesa pronunciata dal vescovo al momento della vostra ordinazione: «Ricevi il Vangelo di Cristo del quale sei divenuto l’annunciatore: credi sempre ciò che proclami, insegna ciò che hai appreso nella fede, vivi ciò che insegni». La Parola che vi è stata posta tra le mani e della quale siete ministri è una Parola prima di tutto da ascoltare! «Ascoltate!» (Mc 4,3) è l’invito di Gesù per le folle alle quali sta per raccontare la parabola del seminatore e della sovrabbondanza del seme ed è la disposizione con la quale siamo stati invitati ad entrare nel Cammino Sinodale delle Chiese che sono in Italia.

«Troppe volte dimentichiamo – dice il Messaggio ai presbiteri, ai diaconi, alle consacrate e consacrati e a tutti gli operatori pastorali – nelle nostre comunità che il cuore del servizio è l’ascolto (cf. Lc 10,38-42) e ci sentiamo protagonisti della pastorale, chiamando poi il Signore a collaborare con noi, quasi dovessimo semplicemente escogitare dei metodi e delle tecniche per evangelizzare gli altri e non, prima di tutto, lasciarci plasmare dal Vangelo e convertire noi stessi. L’ascolto non è una semplice tecnica per rendere efficace l’annuncio; l’ascolto è esso stesso annuncio, perché trasmette all’altro un messaggio balsamico: “Tu per me sei importante, meriti il mio tempo e la mia attenzione, sei portatore di esperienze e idee che mi provocano e mi aiutano a crescere”. Ascolto della Parola di Dio e ascolto dei fratelli e delle sorelle vanno di pari passo. L’ascolto degli ultimi, poi, è nella Chiesa particolarmente prezioso, poiché ripropone lo stile di Gesù, che prestava ascolto ai piccoli, agli ammalati, alle donne, ai peccatori, ai poveri, agli esclusi. L’esperienza sinodale non potrà rinunciare al privilegio dell’ascolto degli ultimi, spesso privi di voce in un contesto sociale nel quale prevale chi è potente e ricco, chi si impone e si fa largo. Oggi appare particolarmente urgente, nel nostro contesto ecclesiale, ascoltare le donne, i giovani e i poveri, che non sempre nelle nostre comunità cristiane hanno la possibilità di offrire i loro pareri e le loro esperienze».

È affinare l’orecchio all’ascolto dello Spirito che grida dalla terra e dai poveri (Laudato sì’, 49) e che viene a noi attraverso i volti di tutti gli uomini e di tutte le donne che incontriamo, volti spesso feriti dalle storie e dalle lotte della vita, dal peccato che fa male.

Sinodo è camminare insieme, abitare la «sfida di scoprire e trasmettere la ‘mistica’ di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio» (Evangelii gaudium, 87).

«La Parola di Dio – insegna la laica Madeleine Delbrêl – non la si porta in capo al mondo in una valigetta: la si porta in se stessi, la si porta su di sé. Non la si ripone in un angolo di se stessi, nella propria memoria, come sistemata sul ripiano di un armadio. La si lascia andare fino al fondo di sé, sino a quel cardine su cui fa perno tutto il nostro essere» (Noi delle strade, 76).

Lasciare entrare al fondo di sé i volti delle persone che incontriamo, farsi abitare dalle loro storie ancora prima di annunciare loro il Vangelo stesso è la disposizione migliore per avviare insieme questo Cammino sinodale. L’annuncio evangelico – del resto – non si trasmette con formule stabilite ma lo si porta alle persone con cui ciascuno ha a che fare tanto ai vicini quanto agli sconosciuti. «In questa predicazione, sempre rispettosa e gentile, il primo momento consiste in un dialogo personale, in cui l’altra persona si esprime e condivide le sue gioie, le sue speranze, le preoccupazioni per i suoi cari e tante cose che riempiono il cuore» (Evangelii gaudium, 128). Di questa predicazione abbiamo bisogno, è quella che si svolge fuori dal presbiterio, fuori dalla Chiesa, nell’Assemblea riunita talvolta inconsapevolmente dallo stesso Cristo che vuole ricapitolare, ricondurre tutto a sé. Noi siamo annunciatori di una Parola che ha toccato il nostro cuore prima della nostra mente, abbiamo un annuncio che penetra nel profondo delle nostre viscere e che mette a nudo i pensieri del nostro cuore (cf. Eb 4,12) che ci mostra la nostra fragilità e insieme ci dona la vita dei figli (Rm 5,5) che ci permette di riconoscerci e guardarci gli uni gli altri come fratelli. Il Cammino sinodale non potrà che sorgere da qui… dall’ascolto! In questo tempo particolare, in cui anche le parole diventano fluide, c’è un grande bisogno di recuperare il senso stesso che esse comunicano. È il linguaggio della vita; è il linguaggio che nasce dall’Incarnazione. Non è un caso che i teologi parlino del principio dell’Incarnazione come criterio ermeneutico dell’agire pastorale.

Per ascoltare, però, bisogna imparare a fare silenzio. Anche questa è una forma di diaconia: siate servitori del silenzio. Nell’andirivieni di parole sappiate scorgere nella Parola il significato ultimo di ciò che avviene. San Giuseppe, in questo Anno speciale dedicato a lui, ci insegna questa capacità di fare spazio e dare tempo al silenzio. Le parole, che nascono dal silenzio, sono figlie dell’ascolto. Non è una ridondanza, ma un processo interiore, spirituale. Coltivate questa spiritualità quotidianamente!

Qualche giorno fa nella liturgia abbiamo incontrato la parola del vangelo (Lc 13,18-21) nella quale Gesù per spiegare il Regno di Dio usa le immagini del granello di senape e del lievito. Elementi che presi da soli già di per se sono poco significativi e che per portare frutto devono addirittura scomparire, mescolandosi con la terra uno e con la farina l’altro. Solo scomparendo e mescolandosi portano un frutto straordinario e inaspettato. Così è dell’ascolto. Solo praticando quell’ascolto che ci richiede di scomparire davanti al fratello o alla sorella, possiamo permettere allo Spirito di suggerirci il cammino perché solo su quel silenzio può parlare il Signore.

Diaconi umili, disinteressati e beati

A conclusione, se ancora abbiamo qualche minuto, vorrei evidenziare come nel discorso di Firenze possiamo trovare anche alcuni elementi concreti, alcuni suggerimenti di passi che ci permettono di iniziare o riprendere a camminare insieme. Sono i tre sentimenti di Gesù – umiltà, disinteresse e beatitudine – che potete declinare per la vostra vita e il vostro ministero diaconale. Suggerisco solo alcuni tratti.

Umiltà è sentirsi parte del tutto. È la strada per guadagnare la giusta misura di se stessi: una visione né troppo grande, né troppo piccola di sé, per imparare a non presumere ma anche a non esimersi dall’assunzione delle proprie responsabilità. «Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con spirito positivo e ricco di speranza. Essere cristiani è gioia nello Spirito Santo (Rm 14,17) […] per cui alla carità segue la gioia» (Francesco, Gaudete et exsultate, 122). La nostra Chiesa ha bisogno di diaconi umili. «Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso» (Fil 2,3), dice san Paolo ai Filippesi, ci ricordava il Papa in un passaggio del suo discorso a Firenze. Questo mi sembra essere il terreno dove far crescere la nostra vita di servitori della Parola e degli ultimi. Il servizio diaconale parte da un riconoscimento dell’umiltà, del sentirsi davvero servi degli altri. L’umiltà ci permette di far passare sempre l’azione di Dio nella nostra vita perché trova un cuore fertile e la Parola in questo modo non sarà mai incatenata.

La nostra Chiesa ha bisogno di diaconi disinteressati. Il tempo della pandemia è stato molto faticoso per tanti. Per qualcuno è stato necessario stringere i denti, tenere duro e cercare di attraversare le fatiche quotidiane, per qualcun’altro – penso in particolare al lockdown – si è presentato come una occasione feconda per abitare di nuovo relazioni importanti e farle ricominciare laddove la ruggine del tempo, dell’abitudine o dell’incomprensione ne aveva impedito il libero fluire. In tutto questo, due parole hanno accompagnato la vita di ognuno e chi se le è sentite rivolgere nella verità, a voce oppure scritte in una chat, ne ha potuto godere la vitalità e sentirsi rinvigorito: «Come stai?». È la possibilità offerta di narrare gli affanni, i dolori, le ansie, le fatiche, le gioie e le preoccupazioni dell’oggi e del domani; è l’energia trasmessa dal sentirsi parte dell’interesse di un altro. Tocca, così, rimanere protesi in avanti, verso l’altro con il quale condividiamo la medesima fragilità, la stessa vulnerabilità, la comune umana piccolezza. «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4). Per dare carne al novo umanesimo il Papa scrive del disinteresse. Ognuno cerchi qualcosa per gli altri senza essere uno che accumula per il proprio bene (quando dico accumula non parlo solo di soldi o cose materiali). Essere liberi da ogni interesse, anche umanamente legittimo, non cercare la gloria o gli applausi della gente. Essere liberi di poter parlare e annunciare con parresia. E per parlare con parresia bisogna essere disinteressati.

Da ultimo. La nostra Chiesa ha bisogno di diaconi beati. Testimoni della gioia del Vangelo. Anche qui mi sembra che ne abbiamo scritte e sentite tante. Sulla gioia tutti hanno cercato di dire o scrivere una parola. Mi sembra che quest’ordine di sentimenti che il Papa ha chiesto alla Chiesa a Firenze e io questa mattina vi ho ri-consegnato sia propedeutico alla gioia del Vangelo. Per essere veramente gioiosi, per sperimentare davvero la gioia profonda del cuore è necessario essere umili e disinteressati, avere il cuore fertile e la vita, legati solo alle cose che contano e che hanno destinazioni alte. Benedire è guadagnare lo sguardo di Dio sulle cose e sulle persone, attendere a quell’esercizio così decisivo perché legato alle radici della lotta spirituale di udire dai volti delle persone il risuonare di quella eco che riconduce alle origini: «Vide che era cosa molto buona» (Gen 1,31).

Nell’intimo di ogni uomo e di ogni donna brilla la luce preziosa della figliolanza divina, nel cuore di ciascuno abita lo Spirito che preme per ricucire quella fraternità originaria, lacerata dal peccato. «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9). La domanda che implora da parte di Dio la direzione del ritorno alla beatitudine per la quale siamo nati e verso la quale siamo diretti è il punto prospettico da cui guardare il mondo. Là, dietro il volto di ciascuno e nascosta dentro i fatti e le occasioni della vita è possibile intuire la fisionomia di Gesù. Solo in Lui possiamo riconoscerci figli di Dio e metterci a servizio, gli uni degli altri per camminare insieme, nella benedizione, come fratelli.

Grazie per la vostra testimonianza. E… buon Cammino sinodale!

S.E. R. Mons. Stefano Russo